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TUTELA DEI MODELLI E DISEGNI. Quando La Violazione Di Un Modello/disegno Può Comportare La Condanna Per Contraffazione E Per Concorrenza Sleale Confusoria. (Cassazione Civile Del 14.05.2020 N. 4498).

TUTELA DEI MODELLI E DISEGNI. Quando la violazione di un modello/disegno può comportare la condanna per contraffazione e per concorrenza sleale confusoria. (Cassazione Civile del 14.05.2020 n. 4498).

Con la sentenza n. 4498 del 14.05.2020, la Cassazione Civile fissa il principio in virtù del quale “in ipotesi di contraffazione di un modello/disegno, la tutela accordata per la violazione della privativa può concorrere con quella prevista per la concorrenza sleale confusoria per imitazione servile se il prodotto reca una forma individualizzante, tale da essere percepita, oltre che dall’utilizzatore informato (ossia, dal consumatore attento ai dettagli in condizioni di riconoscere un modello anche confrontandolo con i modelli anteriori e con le evoluzioni della tecnica, essendo (per definizione) un buon conoscitore del mercato) anche dal consumatore medio”.

I FATTI DI CAUSA.

La società Menghi Shoes s.r.l. conveniva in giudizio la società Teddy s.p.a. innanzi al Tribunale di Bologna deducendo che la convenuta aveva acquistato e commercializzato calzature (specificamente, sandali) che costituivano copia di propri prodotti, oggetto di alcuni modelli italiani registrati e di modelli comunitari non registrati.

Il Tribunale accoglieva le domande attoree con cui erano lamentate la contraffazione dei modelli e la concorrenza sleale per imitazione servile e condannava la convenuta al risarcimento del danno liquidandolo in € 250.000,00.

La società soccombente in primo grado Teddy s.p.a. proponeva appello. La Corte di Appello di Bologna riformava parzialmente la sentenza di primo grado e, rigettando la domanda a titolo di illecito concorrenziale, riduceva l’importo del risarcimento ad € 125.000. Specificamente, la Corte emiliana osservava che la domanda di concorrenza sleale, in quanto basata sui medesimi elementi di fatto posti a fondamento della domanda relativa alla contraffazione, costituiva una non consentita duplicazione di questa; rilevava, inoltre, che non era stato provato che il prodotto della convenuta fosse ricondotto dal consumatore medio alla società appellata Teddy s.p.a.: e ciò sia in quanto altre case di moda “apparivano sui prodotti Menghi”, sia in quanto i prodotti in contraffazione recavano il marchio (OMISSIS) e mostravano la provenienza da Teddy. Inoltre, osservava che il danno risarcibile risultava essere stato quantificato in modo eccessivo poiché: – l’importo dell’utile lordo stimato per la società appellante non era comprensivo dei costi particolari da questa affrontati; – andava considerato il rapido decadimento dei modelli nel mondo della moda; – alcune specifiche voci correlate all’attività produttiva di Menghi, quali il possibile riutilizzo degli stampi e l’ammortamento; – con riferimento all’asserito danno all’immagine, non risultavano provati annullamenti di ordini, lettere di contestazione o proteste dei consumatori finali; – il tempestivo ritiro dei prodotti di Teddy s.p.a. dal mercato aveva contenuto tale pregiudizio.

Avverso la sentenza di appello, la Menghi Shoes s.r.l. proponeva ricorso e la Teddy s.p.a. resisteva con controricorso, ma veniva rigettato.

Decisione.

Con il primo motivo, la ricorrente denunciava violazione e falsa applicazione dell’art. 2598 c.c., n. 1, Codice Civile e omesso esame di fatti decisivi. La censura, specificamente, investiva la decisione impugnata nella parte in cui aveva escluso che la medesima condotta potesse integrare, al contempo, contraffazione del modello e concorrenza sleale per imitazione servile, in presenza dell’appropriazione di forme individualizzanti.

La Suprema Corte ha ritenuto infondato tale motivo. Essa inizia il suo iter logico-giuridico ribadendo il principio di diritto, oggetto ormai di orientamento costante in giurisprudenza, secondo il quale l’imitazione rilevante ai sensi dell’art. 2598, n. 1, Codice Civile, è quella che cade sulle caratteristiche esteriori dotate di efficacia individualizzante, idonee cioè, in virtù della loro capacità distintiva, a ricollegare il prodotto ad una determinata impresa, sempre che la ripetizione dei connotati formali non si limiti a quei profili resi necessari dalle caratteristiche funzionali del prodotto non esige la riproduzione di qualsiasi forma del prodotto altrui, ma solo quella (Ex multis, Cass. 12 febbraio 2009, n. 3478; Cass. 26 novembre 2008, n. 28215; Cass. 19 gennaio 2006, n. 1062). Da ciò, quindi, discende correttamente che a fronte della medesima condotta contraffattiva l’interessato può avvalersi sia della tutela spettantegli in ragione della registrazione del modello (artt. 31 e segg. Codice di Proprietà Industriale), sia di quella di carattere generale predisposta contro l’imitazione servile (art. 2598, n. 1, Codice Civile).  Pertanto, sottolinea la Corte, nella vicenda in esame si delineano due distinte soglie di tutela: I) se la forma ha carattere solo individuale, il modello riceve protezione unicamente in ragione dell’avvenuta registrazione e per la durata di cui all’art. 37 c.p.i.; II) se, invece, la forma è percepibile anche dal consumatore medio, è ammesso il cumulo tra la tutela accordata dalla registrazione del modello e quella operante contro gli atti di concorrenza sleale confusoria e, segnatamente, contro l’imitazione servile. Il titolare del modello, invero, – prosegue la Corte – potrebbe avere un interesse a far valere, in giudizio, sia la domanda basata sulla violazione del proprio diritto di privativa che l’imitazione servile: potrebbe, cioè, temere che il contraffattore opponga, fondatamente, la nullità del brevetto e considerare, quindi, la necessità di prospettare in causa l’imitazione servile delle forme del proprio prodotto, in quanto percepibili anche dal consumatore medio; ma egli potrebbe anche decidere di adottare una tale strategia sulla base della semplice considerazione dei risultati favorevoli che da essa possano discendere.

Motiva la Corte tale iter logico-giuridico specificando che “nel caso di contraffazione del modello e dell’imitazione servile la medesima condotta di riproduzione delle forme del prodotto non impedisce infatti il concorso dei due illeciti, giacchè la configurazione dell’uno o dell’altro di essi dipende solo dal diverso parametro di cui ci si avvale per dar ragione del valore (rispettivamente individuale o distintivo) delle dette forme, che è nel primo caso l’utilizzatore informato e nel secondo il consumatore medio: e, ove il modello presenti, oltre che carattere individuale, un connotato distintivo riconoscibile dal consumatore medio, il titolare della privativa potrà avvalersi anche dei rimedi codicistici contemplati per l’illecito confusorio (art. 2598 c.c., n. 1)”.

Ciò premesso, La Suprema Corte ha ritenuto quindi errata la sentenza della Corte di Appello nella parte in cui ha affermato che nella fattispecie, “in assenza di un qualunque fatto o circostanza ulteriore”, non potesse configurarsi l’imitazione servile. Pur tuttavia, la Corte di Appello medesima, come rilevato dalla Corte di legittimità, ha ritenuto insussistente la confondibilità tra i prodotti delle rispettive aziende perché: 1) è mancata la prova “che il consumatore medio potesse ictu oculi ricondurre erroneamente la ciabatta Teddy al produttore Menghi”, posto che “altre case di moda o produttori” contrassegnavano gli articoli dell’attrice; 2) le calzature dell’odierna controricorrente esibivano un proprio marchio riferibile alla stessa Teddy s.p.a..

Tali motivazioni del Giudice del gravame sono, peraltro, pienamente conformi agli orientamenti costanti della Corte di Cassazione secondo i quali il divieto dell’imitazione servile – di cui all’art. 2598, n. 1, Codice Civile –  tutela soltanto l’interesse a che l’imitatore non crei confusione con i prodotti del concorrente, realizzando le condizioni perchè il potenziale acquirente possa equivocare sulla fonte di produzione” e che “tale interesse è senz’altro soddisfatto dalla presentazione del prodotto con la precisa indicazione che lo stesso è fabbricato da un diverso imprenditore” (Cass. 19 gennaio 2006, n. 1062; nel medesimo senso: Cass. 3 agosto 1987, n. 6682; Cass. 9 novembre 1983, n. 6625).

Tuttavia, la Suprema Corte precisa che, sempre secondo orientamento costante giurisprudenziale, la presenza del marchio sul prodotto idoneo ad attribuire l’origine ad un determinato produttore non sempre è sufficiente ad escludere la concorrenza per imitazione servile, ed è rimesso al Giudice del merito il compito di verificare la funzione qualificante e distintiva svolta, in ipotesi come quella in esame, della apposizione del marchio del produttore concorrente.

Orbene, alla luce di quanto esposto la Corte di Appello ha quindi correttamente escluso la confondibilità tra i prodotti delle due aziende avendo avuto riguardo ai segni distintivi presenti sui prodotti in contraffazione e su quelli contraffatti: poiché i primi recavano il marchio della Menghi Shoes s.r.l. e i secondi recavano marchi diversi non riconducibili ad essa, bensì alla Teddy s.p.a..

Con il secondo motivo è lamentata la violazione, falsa o errata applicazione dell’art. 125 Codice di Proprietà Industriale, anche in relazione agli artt. 2598, n. 1, e  2600 Codice Civile e art. 115 Codice di Procedura Civile, nonchè omessa valutazione di fatti decisivi in punto di quantificazione del risarcimento del danno. Segnatamente, la Corte di Appello non avrebbe anzitutto considerato il danno concorrenziale specifico, diverso ed ulteriore rispetto a quello derivante dalla contraffazione, determinato dal grave svilimento del prodotto, giacchè la controparte aveva realizzato un articolo di bassissima qualità; avrebbe mancato di apprezzare lo sviamento di clientela derivante dal rischio di associazione dei modelli; avrebbe errato nell’attribuire rilevanza ai costi particolari sostenuti dal contraffattori per commercializzare i propri prodotti.

Anche tale motivo viene ritenuto infondato. Il risarcimento del danno, sottolinea la sentenza in esame, è stato quantificato dalla Corte di merito sulla base del criterio della c.d. retroversione degli utili, previsto dall’art. 125, comma 3°, Codice di Proprietà Industriale (a mente del quale prevede che “in ogni caso il titolare del diritto leso può chiedere la restituzione degli utili realizzati dall’autore della violazione, in alternativa al risarcimento del lucro cessante o nella misura in cui essi eccedono tale risarcimento“). Ebbene, al fine di quantificare l’utile percepito dal contraffattore bisogna  considerare, come è ovvio,  non l’intero ricavo derivante dalla commercializzazione del prodotto contraffatto, ma il margine di profitto conseguito da colui che si è reso responsabile della lesione del diritto di privativa. Ed è altrettanto ovvio che la locuzione “benefici realizzati dall’autore della violazione” (di cui all’art. 125, comma 1°, Codice di Proprietà Industriale che l’istante ha richiamato) evochi un concetto del tutto analogo: appunto quello dei vantaggi o utilità conseguiti da quel soggetto attraverso l’illegittimo sfruttamento della privativa.

Inoltre, il margine di profitto, poi, non consiste nella mera differenza tra il prezzo di acquisto (del bene poi rivenduto, o della materia prima, ove essa sia oggetto di trasformazione da parte dell’autore della violazione) e il prezzo di rivendita. Come correttamente osservato dalla Corte di appello, occorre considerare anche i costi particolari affrontati dalla società responsabile della contraffazione. Infatti, fattori negativi (quali ad esempio i costi produttivi e di distribuzione) concorrono a determinare l’utile e la mancata considerazione di essi porterebbe alla valorizzazione di un elemento economico diverso da quello preso in considerazione dalla norma.

Per le ragioni su esposte, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso.

 

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